C’è il rischio che il Recovery Fund sia usato al posto delle risorse che i fondi d’investimento privati erano già pronti a dedicare alle infrastrutture italiane. Invece dovrebbe fungere da volano per quei progetti che da decenni vivono uno stallo dovuto alla carenza dei requisiti economico-finanziari minimi.
In un sistema in cui le nazioni a più basso indice infrastrutturale sono quelle che faticano ad avanzare nella ripresa economica e i problemi legati a tale settore vengono considerati temi prioritari di finanza pubblica, le infrastrutture rappresentano un asset strategico per il rilancio del Paese.
L’Italia però, nonostante sia una delle principali economie europee, ha una dotazione infrastrutturale ben al di sotto degli standard Ue, fenomeno riconducibile – tra l’altro – ad un quadro normativo eccessivamente dettagliato e frammentato che ha costituito un freno allo sviluppo economico, rendendo più difficile la competizione e la partecipazione al mercato. Due dati possono aiutarci a capire meglio la situazione..
Il primo è quello degli investimenti totali in infrastrutture, circa il 7% del Pil, sin qui inferiori alla media Eu di almeno 2 punti. Il secondo è la quota del Pil dedicata a investimenti pubblici, ferma in Italia a poco più del 2% contro una media Eu del 3%.
Al contrario però va segnalata la forte crescita del trend di apporto privato negli ultimi anni, utile a controbilanciare il livello stagnante di quelli pubblici.
Infatti, con lo spread tipicamente più alto rispetto a Paesi con economie comparabili, l’Italia continua a fornire rendimenti più alti e ad attrarre in maniera crescente investitori specializzati che vogliono investire e consolidare la propria presenza nel nostro Paese.
Volgiamo ora lo sguardo al futuro. In base al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) all’Italia viene assegnata una quota pari al 28%, cioè € 209,9bn dell’intero Recovery Fund dell’Ue sotto forma di contributi per € 81,4bn e di prestiti per € 127,4bn, con il 70% delle risorse attese nel biennio 2021-22 e il restante nel 2023. L’occasione unica che si prospetta è quella di far sì che i danari del Recovery Fund siano “ben spesi”. Ma bisogna intendersi sul concetto del buon utilizzo di queste risorse.
Infatti, se requisito necessario per raggiungere questo obiettivo è la selezione di progetti che rientrino nelle missioni della Green Revolution e transizione ecologica, delle infrastrutture per la mobilità e dell’uguaglianza sociale, ciò non è tuttavia sufficiente per garantire il buon utilizzo dei fondi del Recovery Fund.
Questi fondi dovrebbero mirare a supportare progetti infrastrutturali che per loro natura non soddisfano requisiti di “bancabilità” tali da garantire un ritorno – sì di lungo termine – ma solido per gli investitori privati.
Così a questi ultimi verrebbe così lasciato spazio per investire nella realizzazione di opere per loro natura “bancabili”.
Siamo dunque al cuore del problema che è così riassumibile: le risorse del Recovery Fund non dovrebbero essere utilizzate per sostituirsi ai crescenti investimenti privati confliggendo con gli stessi, bensì fungere da volano per quelle progettualità infrastrutturali che da decenni vivono uno stallo dovuto alla carenza dei requisiti economico-finanziari minimi necessari per attrarre fondi privati.
Sempre in questo senso, l’utilizzo delle risorse del Recovery Fund avrebbe un effetto moltiplicatore se innestato sui progetti da realizzare tramite lo strumento del Partenariato pubblico privato (Ppp), garantendo – come consentito dal Codice dei contratti pubblici – una contribuzione pubblica fino al 49% del valore dell’investimento complessivo dell’opera considerata e lasciando pertanto che il restante 51% dello stesso sia finanziato da investitori istituzionali privati, quindi alleggerendo sensibilmente la quota di equity che il soggetto industriale promotore dell’iniziativa in Ppp dovrebbe altrimenti mettere in campo per la realizzazione dell’opera stessa.
Questo consentirebbe di interpretare la vera natura dello schema del Partenariato pubblico privato, che agevolerebbe anche un cambio culturale e di paradigma, in cui la logica collaborativa prenda finalmente il posto di quella conflittuale e della sfiducia reciproca tra operatori economici e classe dirigente pubblica.