Le aziende devono integrare la sostenibilità nelle loro strategie per mitigare i rischi della transizione ecologica e creare valore a lungo termine. Questo richiede investimenti ponderati e l'adozione di nuovi paradigmi che considerino anche le esternalità. Le evidenze di una ricerca di EY, presentata lo scorso novembre a Ecomondo
Le aziende navigano in un contesto in continua trasformazione, dove la sostenibilità gioca un ruolo cruciale nelle decisioni strategiche e nelle scelte di investimento, fondamentali per crescere e innovare, garantendo valore a lungo termine. I rischi associati alla transizione ecologica richiedono alle imprese un'analisi approfondita per mitigare eventuali conseguenze avverse sul business. Integrare la sostenibilità come leva strategica significa rivedere la propria strategia e sviluppare modelli di business sostenibili e circolari, che mantengano elevata la competitività aziendale, rispondendo alle esigenze esterne e, al contempo, creando nuove opportunità di mercato.
Una volta aggiornata la direzione strategica e deciso di convertire il proprio modello di business, la trasformazione per un’azienda non si manifesta istantaneamente, ma si sviluppa attraverso una serie di investimenti ponderati e scelte strategiche che, passo dopo passo, rimodellano asset e risorse. Nel perseguire un investimento sostenibile, tuttavia, le metriche convenzionali (a titolo esemplificativo ROI, IRR, Payback) rischiano di trascurare alcuni fattori che invece acquistano vitale importanza nel contesto degli investimenti ESG. Si tratta proprio delle esternalità, che non sono altro che costi/benefici esterni che gli strumenti di valutazione tradizionali non sono in grado di catturare, fornendo quindi una valutazione parziale degli impatti generati dalle diverse progettualità. Come è possibile allora valutare correttamente un investimento così da coglierne anche gli impatti non finanziari? Quali sono i parametri che occorre tenere in considerazione?
Innanzitutto, le aziende sono chiamate ad adottare un nuovo paradigma che consideri orizzonti temporali più estesi per i propri progetti, valutandone le implicazioni anche di natura non direttamente finanziaria. Infatti, gli investimenti in sostenibilità possono contribuire alla mitigazione dei costi nascosti e dei rischi ambientali: i primi sono certi e non visibili con gli strumenti tradizionali, mentre i secondi sono di natura potenziale, ma spesso trascurati dagli attuali sistemi di risk management; entrambi, se individuati e mitigati, possono portare ad un beneficio per le aziende anche dal punto di vista economico-finanziario, oltre che ambientale. Occorre comprendere il ruolo di supporto offerto da soggetti istituzionali pubblici e privati, utile a ridurre l’onere economico richiesto alle imprese per la loro trasformazione, e ragionare in un’ottica di filiera, ponendosi come catalizzatori di una trasformazione più ampia.
La prospettiva che dovrebbe prevalere quando si valutano interventi di questa natura è quindi quella di accettare oneri finanziari maggiori all’inizio, con l’obiettivo di ottenere benefici duraturi nel tempo. Questo è quanto emerge dallo studio di EY, illustrato lo scorso 6 novembre in occasione degli Stati Generali della Green Economy, all’interno della cornice di Ecomondo, secondo cui i progetti analizzati si caratterizzano per un periodo medio di payback semplice pari a 5,8 anni, a fronte di una vita utile pari in media ad oltre 12 anni. Questo tema è fondamentale, soprattutto in quei settori che richiedono elevati investimenti iniziali, per i quali i ritorni si vedono solo nel lungo periodo.
(articolo pubblicato lo scorso 6 novembre su Il Sole 24 Ore)