Le variabili sono tante, ma chi dirige ha il dovere di scegliere. Gli sviluppi delle neuroscienze e le analisi dei dati ci aiutano a comprendere come nasce una decisione.
Negli ultimi due anni, anche grazie all’accelerazione determinata dall’impatto pandemico, le aziende hanno vissuto e stanno tuttora vivendo delle profonde trasformazioni che, partendo dal ridisegno dei modelli di business, includono la necessità di ripensare i processi di governance e le modalità operative con un forte impatto sulla necessità di trasformare la propria workforce e le competenze delle persone. All’interno di questo scenario, i manager sono chiamati a prendere decisioni complesse a fronte di elevati livelli di ambiguità, attuando una leadership sempre più resiliente e dinamica.
Nonostante tale situazione abbia accelerato l’adozione di nuove forme di lavoro agili, i fenomeni di remote working e social collaboration hanno portato le persone a confrontarsi non solo con nuove modalità di lavoro, ma anche con le proprie paure collegate all’incertezza del futuro e alla resistenza al cambiamento. L’osservatorio EY-Swg “New shapes of working [1]”, orientato ad analizzare il modo in cui i lavoratori hanno vissuto il contesto lavorativo e i relativi impatti su benessere ed engagement, ha evidenziato le ripercussioni dell’attuale situazione sulle persone: 1 lavoratore su 2 ha dichiarato di essere in uno stato di burnout e di non riuscire a riposare la notte, con picchi ancora più elevati per quanto riguarda donne e giovani.
Ma qual è, all’interno di uno scenario così complesso, il ruolo del leader?
Superate ormai le vecchie concezioni basate sull’idealizzazione della figura del leader a vantaggio del riconoscimento della natura emergente e bidirezionale della leadership (es. leader-member exchange), le nuove sfide dovute all’incertezza del contesto hanno messo a dura prova la capacità manageriale nel prendere decisioni, maggiormente legate a dimensioni quali rapidità ed efficacia.
Nello specifico, i leader sono oggi chiamati a prendere delle decisioni in un contesto il cui numero di variabili è elevato e, soprattutto, non tutte sono note, determinando il venir meno dei cosiddetti “ancoraggi” che rappresentano i punti di riferimento entro cui agire la propria capacità decisionale. A fronte di tali difficoltà, l’occasione diventa proficua per individuare le nuove leve capaci di supportare la presa decisionale e l’azione del leader: neuroscienze, risorse personali e analytics.
Da un punto di vista neuroscientifico, la presa decisionale è solo la punta dell’iceberg di un processo ben più complesso, ossia il fenomeno percettivo [2], basato su 4 fasi: la selezione delle informazioni tra i numerosi stimoli del contesto, la categorizzazione di esse nei nostri schemi mentali, la memorizzazione e infine il giudizio e valutazione di tali informazioni. Ed è proprio la valutazione finale del processo percettivo che determina la decisione assunta e il comportamento messo in atto dalla persona. Tuttavia, l’impossibilità di decifrare tutte le informazioni provenienti dall’ambiente esterno e la pressione temporale conducono la persona ad adottare determinate “strategie” decisionali, conosciute come “euristiche [3]” o scorciatoie cognitive che, se da un lato garantiscono la “sopravvivenza” della persona e il risparmio delle proprie risorse, dall’altro possono portare a errori di valutazione, con un conseguente impatto sulle decisioni assunte.
1 Osservatorio EY-Swg, New shapes of working, 2020
2DeNisi, A. S., Cafferty, T. P., & Meglino, B. M., A cognitive view of the performance appraisal process: A model and research propositions. Organizational Behavior & Human Performance, 33(3), pp. 360–396, 1984
3Kahneman, D., & Tversky, A.,On the reality of cognitive illusions. Psychological Review, 103(3), pp. 582–591, 1996